Sannino GFXGoal

Beppe Sannino, la vera gavetta: dal lavoro all'ospedale psichiatrico alla Serie A

Archivio Storie

C'è un motivo per cui la routine, l'abitudine e il ciclico ripetersi ossessivo degli eventi appare così noioso, sopratutto dall'esterno. Non racconta storie, non porta con sè aneddoti. Del resto sono sempre gli stessi e già alla seconda occasione, si alza il coro del già detto, pietra tombale della discussione. Nel mondo del calcio ci sono tanti modi. Cosmi e macrocosmi, intere vite dedicate al pallone sin da bambini, fino al professionismo, alla carriera con le scarpette ai piedi, poi appese, impolverate, per divenire allenatore da una parte o dirigente dall'altra. Visto e rivisto. Certo, tra il fare del calcio al pallone e il dire dell'urlare ai propri giocatori ci può essere la gavetta, ma questa ormai è relegata all'essere eterna e incompiuta, perché difficilmente e in maniera complicata prelude al successo. La gavetta ha cambiato volto, ma un decennio fa era abitudine necessaria per poter puntare al top. Scavando e riscavando al suo interno, anche la possibilità di trovare casi ancor più rari, come quello di Beppe Sannino.

Dodici anni prima di arrivare in Serie A e farsi un nome, diventare noto negli ambienti pallonari, nei discorsi dei bar sport e tra i tifosi delle città di nord, sud, centro, isole, montagne e spiagge. Una rapporto non sempre facile con la massima serie, vissuta in una manciata di occasioni con alti e bassi. Tutto attorno la D, la Serie C, le esperienze inglesi, ungheresi, greche, e persino libiche, con l'avventura all'Al-Ittihad di Tripoli. Avventura chiusa anzitempo a causa del Covid. Imbattuto e primo in classifica con 19 punti in 9 partite e solo 2 goal al passivo, oltre all'esperienza in Champions africana con l'eliminazione per mano dell'Esperance di Tunisi, ha dovuto lasciare dopo essere risultato positivo.

"Quando sei lontano da casa, hai timore di ammalarti senza poter avere le cure necessarie - ha raccontato alla Gazzetta dello Sport -. Non ero tranquillo, ecco. E a malincuore ho dovuto rinunciare: peccato, perché stavamo vivendo pagine sportive esaltanti".

Il 13 maggio 2022 Sannino era ripartito dalla Nocerina, in Serie D, ma dopo 2 mesi è giunta la risoluzione consensuale e la successiva firma con gli svizzeri dell'FC Paradiso (club di quarta divisione elvetica).

"Non voglio essere maleducato, ma è stato diramato un comunicato e non ho nient’altro da aggiungere - ha detto Sannino a 'Forza Nocerina' - Per problemi strettamente personali ho dovuto dimettermi. Non sono un traditore e ci tengo a precisare che le dimissioni non sono da associare alla trattativa con l’FC Paradiso".

Sannino era finito in Serie A quasi per caso, trascinato dagli eventi a cui non ha mai chiesto il perché. È arrivato a quel punto focale in cui qualcosa accade per un motivo.

C'è stato un periodo in cui Sannino non era un allenatore noto, era un tecnico con la passione della tattica e del pallone, ma lontano anni luce dall'incontrare sullo stesso campo da gioco dei grandi campioni, dei fuoriclasse, dei 70.000 spettatori, delle polemiche e delle goie. Del business, dello star system. C'è stato un periodo in cui attorno a sè c'era la vita, quella vera, quella sporca e dura, sboccata, tremenda, impassibile.

A ben vedere, quasi tutta la vita di Beppe Sannino ha fatto rima con quella che miliardi di persone devono vivere ogni giorno. Da bambino prima e da adulto poi. Sopravvivere fisicamente da bambino, sopravvivere mentalmente da adulto. Negli anni '60, da Ottaviano, Napoli, si trasferisce a Torino perché il padre ottiene un posto alla FIAT prima e in una società di imbianchini, poi. A Premium, nel 2012, il racconto di cinquant'anni prima. Prima di Varese, Cosenza e sopratutto, Siena:

"Vivevamo in sette in due stanze e io dormivo in cucina. Mia madre andava a fare la spesa in quelle piccole botteghe nelle quali ti vendono il fondo del prosciutto cotto ad un prezzo inferiore, così come le cassette di frutta che erano in negozio già da qualche giorno.

Mi ricordo che con i biscotti rotti facevano nuove confezioni e le vendevano a prezzo d'occasione. Io giocavo per strada e andavo in giro, anche d'inverno, con i pantaloni corti e le infradito. Per questo mi affibbiarono il soprannome di ciabattino".

Cresce consapevole di cosa voglia dire lottare, vivere in una famiglia operaia, andare avanti con la forza della mente più che con quella del corpo. Non è retorica, è semplicemente la realtà delle cose. Al giovane Beppe piace il calcio, lo sport più popolare, nel doppio significato del termine. Piace a tutti. È del popolo, di cui fa parte. Non ha la fortuna di diventare un top, gioca tra C e dilettanti, ha buona gamba e grande qualità ma manca la scintilla, quel connubio di fortuna e tecnica per emergere. A fine anni '80 si ritira con un'idea, quella di insegnare ai ragazzi il suo mondo, il saper lottare per emergere.

Giuseppe Sannino Carpi Torino Serie A 03102015Getty

Sannino allena i ragazzi della Vogherese prima, del Pavia poi e infine del Monza, a inizio anni '90. Il suo sogno non dev'essere relegato ad un cassetto e pian piano si fa strada, tra bastone e carota, sorriso tirato e pensieri sempre in movimento. È la metà della sua giornata, perché l'altra, quella pesante fisicamente, inizia alle 6 del mattino:

"Dopo aver lavorato per più di 7 ore all'ospedale psichiatrico di Voghera, prendevo la macchina e andavo a Monza per fare quello che avevo sempre sognato di fare, cioè l'allenatore".

Esattamente. Sannino allena le giovanili del Monza negli anni '90, allena fisicamente i ragazzi, dopo aver allenato la sua mente a sopportare la complicata vita che scorre sempre uguale, abitudinaria e pesante, tra le quattro mure dell'ospedale psichiatrico di Voghera:

"Ho lavorato in ospedale, cinque in quello civile e cinque in quello psichiatrico, i famosi manicomi! Mi svegliavo alle 5 di mattina, 900 euro al mese, facevo il mio turno e tornavo a casa. Il mio lavoro consisteva nel pulire i cessi. Ma questo tipo di esperienze ti fanno aprire gli occhi sulla vita reale, servono. Insegnano più di qualsiasi altra cosa! Lì non esiste scusa, non esiste permesso, non esiste ‘quel collega non mi piace quindi non ci lavoro’. Il lavoro è lavoro, punto. Ti piaccia o no lo devi fare e zitto. Il lavoro in ospedale ha segnato la mia vita. Ho potuto conoscere tante storie, soprattutto ho potuto conoscere la sofferenza, quella vera".

Ogni sofferenza limitante nel mondo del calcio fa sbuffare Sannino, dopo tutti gli anni a guardare volti scavati, stanze scure. A 'Fuori tempo' il ritratto di un'epoca:

"Non c'era più il manicomio vero di Voghera, ma c'erano i reparti in cui tutti cercavano di dare dignità ai malati. Ho trovato tantissime storie di persone che erano lì da molti anni, ma non davano l'aspetto di un malato di mente. C'erano gesti che mi facevano piangere, situazioni che mi facevano anche paura. Poverini, non per colpa loro si lasciavano andare, mi sono reso conto che la sofferenza era la loro ma non se ne rendevano conto".

Sannino pulisce quelle camere chiuse, a volte al limite della sopportazione, lavorando in team, come in una squadra di calcio, con colleghi che con il Beppe del nuovo millennio hanno in comune solo il passato operaio e non un presente diverso, in un clima completamente diverso, in un piano orizzontale mai divenuto verticale come quello del ragazzo napoletano che ha vissuto al Nord la sua vita, da persona normale prima e da volto noto poi.

Sistema i letti, le stanze, si china sui carrelli del pranzo con la schiena comunque dritta, consapevole che la sua giornata non finisce dopo sette ore di lavoro, ma continua dopo aver timbrato il cartellino di uscita, per salire in macchina e correre alla volta di Monza, alla sua passione:

"Avevo un dovere verso la famiglia e i miei figli. Il mio tarlo era lavorare quelle sette ore a 12 nel miglior modo possibile, ma il mio spirito era sul campo di calcio".

Un campo da calcio che Sannino riuscirà a rendere come unico obiettivo quando gli anni sulla carta d'identità sono quasi 40, ma mentalmente quelli relativi all'esperienza sembrano essere il doppio. Gli viene affibbiato l'Oltrepò, club dilettantistico di Voghera, per poi passare alle giovanili del Como ed avere la prima occasione da professionistica alla Biellese nel 1998.

Serviranno tredici stagioni e le più svariate esperienze per approdare in Serie A, al Siena. Un mondo variegato, in una scala di colori dal più acceso possibile al più scuro. Esoneri, promozioni, il Trentino, la Calabria, la Lombardia come inizio e fine. Poi i pioli della scala cominciano a cadere e indietro, per sua fortuna, non si può più tornare.

Allena futuri campioni, stringe la mano ai top, esplora Londra, visita Milano, si gode le spiagge della Grecia. Un'eterna gavetta nella sua testa, un percorso che non dimentica le vecchie esperienze, ringrazia il presente e mischia tutto per poter quasi gridare di avercela fatta, dopo tutto, dopo sette ore e dodici tra la sofferenza vera e giornate domenicali davanti a quella diversa, più fine a sè stessa, secondaria, nella mente dei tifosi, tutti attorno a sè, in quel campo che ha sempre inseguito prima di poterlo definire, un-due-tre, suo unico lavoro.

Pubblicità