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Un uomo, uno spauracchio: Ulises De la Cruz, l'incubo di Trapattoni nel 2002

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Nessuno l'ha mai visto veramente giocare. Neppure coloro che sostengono di averlo fatto. Eppure, d'incanto, tra fine maggio e inizio giugno 2002 in Italia non si parla che di lui. Di quanto sia bravo, di quanto sia veloce, di quanto sia pericoloso. Qualcuno giura che una volta ha saltato tutti e 11 gli avversari, portiere compreso, prima di andare a segno. Altri di averlo visto effettuare una rovesciata sotto l'incrocio da fuori area. Come un Holly Hutton in carne e ossa. È un tam tam impazzito, un proliferare di facts da leggenda, un telefono senza fili solo parzialmente rotto, perché il mittente – Giovanni Trapattoni, commissario tecnico dell'Italia che si sta preparando ai Mondiali in Corea del Sud e Giappone – non voleva far passare un messaggio simile, ma quasi.

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Il (falso) mito di Ulises De la Cruz, oggi 50enne, nasce in quei giorni di fine primavera. È il terzino destro dell'Ecuador che il 3 giugno, a Sapporo, affronterà l'Italia nella gara d'esordio azzurra ai Mondiali. Ed è temuto. Parecchio temuto. Non tanto dall'opinione pubblica, né dai calciatori. A mettere il mondo in guardia sulle sue potenzialità apparentemente esplosive è il Trap. In quei giorni il ct azzurro si presenta davanti ai giornalisti, una chiacchierata come tante altre, impreziosita da qualche chicca che da parte sua non manca mai. Tra un discorso e l'altro, spunta il suo nome. Lo conosce, lui sì l'ha visto all'opera. E ne è al contempo affascinato e intimorito.

Ho spostato Panucci a destra e Zambrotta a sinistra per prepararmi all'esordio con l'Ecuador – dice – I nostri avversari hanno un giocatore molto forte, si chiama De la Cruz, è molto rapido. Voglio preparare una gabbia per fermarlo. Ci servirà una formazione che ci offra maggiore protezione difensiva. Ma del resto questa è una Nazionale molto camaleontica, con calciatori duttili”.

Qualcuno dei giornalisti presenti non solo non ha mai visto in azione De la Cruz: non ricorda nemmeno di averlo mai sentito nominare. Ma quando Trapattoni ne delinea le doti, scatta la corsa all'informazione. Tutti vogliono sapere e capire chi diavolo sia questo folletto che così tanta paura ci sta incutendo. Nell'Italia calcistica, in quei giorni, il suo nome e le immagini delle sue giocate spuntano ovunque. Gli articoli di giornale si sprecano, nei programmi televisivi dedicati il suo profilo compare a ripetizione. Si sa che non è ancora arrivato alla trentina. Che gioca in Scozia, nell'Hibernian. Che ha rappresentato il record di spesa per le casse del proprio club: 700mila sterline. Che in passato ha girovagato tra Ecuador e Brasile. E che per la Tri del Bolillo Gomez è un elemento fondamentale. Poco altro.

Eppure il Trap è convinto di quel che sta dicendo. Ed è intenzionato a tradurre in soluzioni pratiche i propri timori. L'Italia è arrivata a quel Mondiale giocando spesso con un trequartista dietro a due punte. Del resto, il materiale tecnico a disposizione non è mai mancato: Totti, Del Piero, Vieri, Inzaghi (Pippo), Doni. Ma da qualche tempo i nostri sono passati a un più prudente 4-4-2. Un modulo che il ct ha il desiderio di riproporre contro l'Ecuador, pur di fermare lo spauracchio De la Cruz. Al diavolo lo spettacolo, al diavolo l'offensivismo.

Il problema è che pure i giocatori sembrano storcere il naso di fronte a cotanta preoccupazione. Quando i giornalisti chiedono a Francesco Totti chi gli faccia venire in mente questo De la Cruz, il capitano della Roma se la ride sotto i baffi (che non ha): “Pelé”. Per poi tornare serio (forse): “È forte, salta quasi sempre l'avversario”. Cristiano Doni, in lizza per giocare sulla sinistra del centrocampo a 4, proprio di fronte alla presunta stella sudamericana, ci scherza su: “Se devo marcarlo io, prendo una pistola e gli sparo”.

Esagerano – risponde De la Cruz, intervistato un paio di giorno dopo da 'La Stampa' – Loro sono l'Italia, un Paese potente, noi siamo una squadra che dovrà approfittare dei loro errori e non ne dovrà commettere. Sapeste quanta fatica ci è costato costruire una buona Nazionale, anche se alla fine ne è valsa la pena e possiamo creare qualche sorpresa perché giochiamo insieme da molto tempo”.

Il compianto Gianni Mura, in un editoriale su 'Repubblica', minimizza l'effetto ecuadoriano:

Non è la prima volta che Trapattoni ingigantisce un avversario. Lo faceva anche Giulio Cesare, ma dopo gli scontri, non prima. Come Trapattoni, penso che sia giusto rispettare tutti, ma che l'impatto dell'Italia col mondiale non sia dei più difficili. È che siamo maestri (nessuno escluso) nel drammatizzare le situazioni: nel sorteggio del primo dicembre abbiamo letto un'Italia minimo in semifinale, più facile in finale. Esagerati, forse. Ma in questi ultimi dieci giorni, fra tante cose, s'è fatto dell'Ecuador uno spauracchio eccessivo”.

L'opinione più illustre, alla fine, è quella di Lorenzo Amoruso. All'epoca gioca nei Rangers, primo capitano cattolico in terra protestante. Visto che milita nello stesso campionato di De la Cruz, 'L'Unità' gli chiede un parere sullo spauracchio che sta costringendo gli sportivi italiani a qualche notte in bianco.


“È un buon giocatore. Veloce, corre molto sulla fascia, dribbla bene, crossa altrettanto bene. Le qualità le ha, ma non è nulla di trascendentale. Un campione? Assolutamente no. Mentirei se dicessi che non mi è piaciuto, ma da qui a farlo diventare un fenomeno mi sembra un inspiegabile eccesso. In Italia abbiamo questa cattiva abitudine. È capitato in passato, temo che capiterà ancora. Ma stavolta si è esagerato. A leggere i giornali sembra che De la Cruz sia un novello Garrincha. Mi pare veramente troppo. Doni avrà di che faticare, ma il suo avversario diretto non è il fuoriclasse che è stato dipinto. De la Cruz può diventare un problema serio solo se l’Italia vorrà farlo diventare un problema. Se, invece, gli azzurri andranno in campo con la consapevolezza di essere un grande gruppo e una forte Nazionale non credo proprio che falliranno il primo obiettivo”.

La realtà è esattamente quella tracciata da Amoruso. A Sapporo, il 3 giugno, non c'è proprio storia. Bobo Vieri segna una prima volta dopo 7 minuti e una seconda prima della mezz'ora. Dietro non si rischia nulla o quasi. E il 2-0 del primo tempo è anche il risultato finale. De la Cruz tenta di combinare qualcosa, alla fine risulterà pure uno dei meno peggio, ma viene inghiottito assieme ai compagni nelle sabbie mobili di una partita impossibile da raddrizzare. L'incubo è stato esorcizzato. Il pericolo pubblico descritto da Trapattoni altro non si è rivelato che un personaggio comune. Troppo comune per far davvero paura.

Totti Ulises De la Cruz Italy EcuadorGetty Images


Così, De la Cruz torna mestamente nell'anonimato. Lui e pure l'Ecuador, estromesso già ai gironi. Anche se i Mondiali, assieme all'ottima stagione disputata con l'Hibernian, contribuiscono a metterlo in vetrina. Prima dell'avventura asiatica diceva: “Mi piacerebbe giocare in Spagna o in Italia”. Ma a prelevarlo è l'Aston Villa, dove rimarrà per quattro stagioni, diventando il primo calciatore ecuadoriano della storia a giocare in Premier League. Dirà anni dopo a 'Mundo Diners' che “essere nel calcio inglese, per me, era come giocare alla Super Nintendo: un sogno”.

Certo, ai tempi pure in Inghilterra ci mettono del loro. Non bastassero le esagerazioni del Trap, Graham Taylor, il manager del Villa, dice di De la Cruz che “nel proprio paese è considerato il David Beckham locale”. Un bel modo per togliergli pressione dalle spalle. L'ecuadoriano parte pure bene, ma non riesce a entrare completamente nei cuori dei propri sostenitori. Qualcuno, col tempo, ne storpia il nome: Ulises diventa “Useless”. Ovvero inutile. Nel 2006, dopo aver perso spazio nell'undici titolare di David O'Leary, chiede e ottiene la cessione al Reading.

E poi il Birmingham City, una sola presenza in Championship e il foglio d'addio. E infine la Liga Deportiva Universitaria di Quito, dove torna a distanza di una decina d'anni e dove vince, proprio come aveva fatto nella prima parentesi: nel 2009 si mette in bacheca Copa Sudamericana (nonostante venga espulso nella finale di ritorno col Fluminense) e Recopa Sudamericana. Un bel modo per chiudere la carriera. E pure per lasciare un segno nel mondo del pallone.

Fuori dal campo, in realtà, c'è un altro De la Cruz. Un personaggio che non si limita ai quattro lati di un rettangolo verde. Già quando giocava aveva creato una fondazione benefica, la Fundecruz, a Piquiucho, il suo paese natale. È ambasciatore dell'UNICEF e da un po' di tempo è entrato in politica con il Movimiento Alianza País. “Ho vissuto molto tempo all'estero – ha detto nel 2014 – e vedevo quanti presidenti si alternavano, le difficoltà economiche, le rapine. Era un paese ingovernabile”. Il calcio, quello è alle spalle. Ma in Italia il suo ricordo non è mai svanito del tutto.

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