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Roma, 22 anni dalla festa: lo Scudetto 2000/2001

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Sono le 16.46 del 17 giugno 2001. Sensini, decano del Parma, sta amministrando con la suola un innocuo pallone a centrocampo. Ecco, però, l’imprevedibile: dagli spalti all’altezza della Curva Nord un gruppo di tifosi, prima poche decine e poi centinaia, si riversa sul prato di un Olimpico traboccante. Il motivo? Gli avversari dell’argentino, di giallorosso vestiti, stanno conquistando i tre punti che permetterebbero loro di prenotare l’ornamento più prezioso da cucire sulla maglia della stagione successiva, ossia lo Scudetto.

«Tutti sanno quanto entusiasmo ci possa essere nella Capitale, è una città caldissima - ha spiegato a GOAL nel 2021 Italo Galbiati, secondo di Fabio Capello nella Roma di inizio millennio - ma in quel momento stava per costarci caro. Fuggimmo negli spogliatoi con i tifosi che ci correvano dietro. Tememmo davvero di perdere il campionato, sarebbe bastato un fischio dell’arbitro».

Per tredici, eterni minuti la partita non può riprendere, come se la tensione che prima del match aveva sclerotizzato i muscoli dei romanisti non fosse bastata, «perché tutti si aspettavano che vincessimo, ma non c’era nessuna certezza che sarebbe successo - ci ha raccontato uno dei grandi protagonisti di quella cavalcata, Vincent Candela - C’era lo stadio pieno per l’ultimo atto di un campionato tiratissimo, equilibrato e bellissimo. Mancava solo l’ultimo sforzo».

Non esistono aggettivi migliori per descrivere la Serie A 2000/01, quando le “sette sorelle” rendevano impronosticabile l’esito di ogni sfida e impacchettavano una delizia dopo l’altra per gli occhi dei privilegiati tifosi italiani. All’ultima giornata Lazio, Juventus e, appunto, la Roma si trovavano in uno scomodissimo braccetto stretto in tre punti, con la “Magica” in testa e padrona del proprio destino. Un fato, appunto, che in quei tredici minuti metafisici, sospesi tra l’impazienza di festeggiare e una realtà che sul tabellone recitava 3 a 1 per i padroni di casa, stava per giocare uno scherzo terribile.

Alle 17.03, tuttavia, con un minuto d’anticipo Braschi fischiò la fine: «Fu una liberazione, una sensazione meravigliosa che non scorderò mai per il resto della mia vita. Ho ancora i brividi a ripensare a quel momento» ci ha detto un emozionato Candela. La stagione, tuttavia, non era partita sotto i migliori auspici. Reduce dal sesto posto della prima stagione capelliana, una Roma ancora vittima del rovello piuttosto pruriginoso dell’alloro nazionale appena conquistato dai rivali cittadini si faceva estromettere dalla Coppa Italia, un 4-2 senza appello contro l’Atalanta al primo turno. Era il 22 settembre 2000, il campionato non era ancora iniziato a causa del rinvio dovuto alle Olimpiadi di Sidney e i tifosi giallorossi non riuscirono a metabolizzare la sconfitta, tanto da dare vita ad una feroce contestazione.

«Fu uno scontro duro, ma civile e, in definitiva, utile - ha ammesso l’ex laterale francese - perché ci diede una “svegliata”, come dicono a Roma, aiutandoci a prendere consapevolezza della nostra forza e ricordandoci quali dovessero essere i nostri obiettivi».

D’altronde, il mercato della società del compianto Franco Sensi era stato roboante, in quanto avevano raggiunto Trigoria giocatori del calibro di Samuel, Zebina, Emerson e, soprattutto, Gabriel Omar Batistuta, che abbandonò Firenze dopo nove anni e 168 goal in maglia viola.

«L’arrivo di talenti di questa caratura cambiò la mentalità dell’intero spogliatoio, già forte di nomi come quelli di Cafu, Totti e Tommasi. C’è da dire in particolare che Batistuta era un vero number one, un ragazzo straordinario che non mollava mai» ha dichiarato Galbiati.

La reazione alle incertezze di inizio stagione fu pronta e robusta, come dimostra il primato ottenuto il 12 novembre 2000 nella trasferta di Brescia e mantenuto fino alla fine del torneo. Seppur campioni d’inverno e con un margine rassicurante fino alla metà del girone di ritorno, i capitolini incontrarono diverse difficoltà dovute tanto alla qualità degli avversari quanto a quelle che Candela ha definito «dinamiche famigliari. Quella Roma, infatti, non era una squadra, ma una grande famiglia e ogni tanto capitava che si litigasse; questo, però, non significa che non ci si volesse bene».

Su tutti, l’attrito interno più costante fu di certo quello riguardante «il rapporto tra Montella e Capello - ha continuato il transalpino - reso noto al pubblico alla penultima giornata a Napoli, quando le telecamere inquadrarono la discussione tra il mister e Vincenzo, ma che in realtà covava già da tempo. I grandi campioni vogliono sempre giocare e Montella lo era, quindi non stupisce che non fosse contento. Tuttavia, c’era Delvecchio in grandissima forma e allo stesso tempo, nel momento in cui mister Capello decideva di schierare Vincenzo, lui segnava sempre. Dunque, si può dire che alla fine trovammo un equilibrio».

Dinamiche famigliari che, in quanto tali, vennero risolte senza rancore:

«Il caso non è mai esistito. Per dire, vincemmo lo Scudetto il 17 giugno e il 18 giugno, giorno del compleanno di Montella e di Capello, festeggiammo tutti insieme. Altro che litigate e discussioni!» sorride Vincent.

Sul campo, come si diceva, non mancarono i momenti di forte difficoltà. La Pasqua 2001 non fu salvifica per i romanisti, che uscirono sconfitti dalla sfida del “Franchi” contro la Fiorentina e la settimana successiva impattarono nella giornata di grazia del Perugia e di disgrazia del portiere Antonioli, il cui “incidente” in presa regalò una rete agli umbri e causò le insistenti rimostranze della Curva Sud, sedate solo dall’intervento di Totti. Due turni più tardi era in programma uno dei derby più importanti nella storia della stracittadina contro una «Lazio che dava sempre l’anima e capace di sfruttare ogni nostra debolezza», ha ricordato Galbiati.

Difatti, i biancocelesti riaprirono il campionato pareggiando i conti all’ultimo minuto con Castroman per il 2 a 2 finale. Di tutt’altro gusto fu, invece, l’empate ottenuto con lo stesso risultato al Delle Alpi sette giorni dopo.

«Fu certamente il momento decisivo della stagione - ha sostenuto Candela - perché dopo sei minuti perdevamo 2-0. Recuperare fino al pareggio fu per noi una sorta di segnale, mentre la questione Nakata a qualcuno può aver dato addirittura una spinta ulteriore», con riferimento all’ingresso decisivo del giapponese (un goal segnato ed un altro propiziato) reso possibile dalla sentenza in merito all’aumento degli extracomunitari schierabili, resa effettiva qualche giorno prima della sfida e fonte di roventi polemiche.
Roma Scudetto 2001Getty Images

Un colpo di fortuna, «ma la fortuna bisogna anche meritarsela» ha asserito Galbiati, che da collaboratore di Capello sa quanto l’allenatore friulano, «grande uomo e grande campione», sia stato centrale nella vittoria finale dei capitolini. Per Candela «non ci sarebbe stata quella Roma e quello Scudetto senza di lui. Certo, ci vogliono i grandi giocatori - e noi li avevamo - ma Capello quell’anno ha pesato almeno per il 50%». Una presenza, quella del mister friulano, in grado di dare l’apporto decisivo nel momento più delicato, ossia quello successivo al mancato match point contro il Napoli in occasione del penultimo atto del campionato. Per il ballo conclusivo servivano la concentrazione, la passione proprie solo di «un grandissimo gruppo e, senza dubbio, noi lo eravamo. Era questo il nostro segreto» ha svelato Vincent.

«Almeno due volte a settimana si andava a mangiare tutti insieme oppure si faceva una gita al mare con le Harley-Davidson che feci comprare ai miei compagni. In teoria non si poteva, però… (risata, ndr)».

Riavvolgiamo il nastro ed eccoci nuovamente all’Olimpico, ammaliati dal magnetismo irresistibile di quasi ottantamila spettatori morsi dalla tensione e dell’intrepida necessità di festeggiare il terzo Scudetto, il primo dopo diciott’anni. Totti, Montella e Batistuta, poi l’innocua rete di un giovane Marco Di Vaio. L’aria straripante di cori ed elettricità, la mistica di quei tredici minuti, il sogno di un popolo intero che si avvera.

«I tifosi furono essenziali, ancora oggi festeggio con loro quella vittoria - si è lasciato andare dolcemente il francese - e il loro affetto è stato così forte da contribuire alla mia scelta di restare a vivere a Roma».

Quel 17 giugno fu davvero il coronamento di quella pluralità spesso non indagabile e diversificata, eppure complementare e compatta quale è quella romanista, fatta di squadra, società e tifoseria unite nella sorte in una maniera non replicabile altrove. Un organismo peculiare, che, quando si muove coi giri giusti, è capace di creare un’epica con i suoi eroi, proprio come Vincent Candela. Lui ha spiegato che «gli eroi sono altri», confermando però quanto abbiamo appena scritto: «Quello Scudetto lo vinse tutta la Roma».

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